11 marzo 2013
BREVI NOTE SU GUGLIELMO OBERDAN di Carlo A.R. Porcella
Riceviamo e pubblichiamo volentieri l'articolo "Brevi note su Guglielmo Oberdan" - patriota mazziniano ed irredentista - inviatoci, in esclusiva, dallo storico Carlo A.R. Porcella. L.B.
BREVI NOTE SU GUGLIELMO OBERDAN di Carlo A.R. Porcella
Ricorre
in questo anno il 130/mo anniversario della morte di Oberdan, parlare
oggi del processo che lo condannò a morte è ancora per l’Austria
molto imbarazzante poiché riapre una delle pagine di cattiva
giustizia che purtroppo molte volte caratterizzano la storia delle
nazioni anche europee. Tuttavia per completare l’informazione
occorre precisare che il comportamento di Oberdan, durante la fase
processuale, fu tale, voluto da lui stesso, per peggiorare le
condizioni giudiziarie.
Guglielmo
Oberdan o forse più esattamente come fu realmente registrato alla
nascita Oberdank ma al di là della rappresentazione grafica nelle
lingua nazionale del suo cognome egli resta sempre un patriota per
cui due popoli, come disse Carducci, allora chiamavano giustizia a
Dio.
Personalmente,
per rispetto del volere dell’eroe in quanto segue parlerò sempre
di Oberdan perché un giorno egli affermò che scrivere il cognome
con la k finale era d’austriaco.
Egli
nacque a Trieste il primo febbraio del 1858 e fu battezzato il giorno
sette dello stesso mese nella parrocchiale di S. Antonio Nuovo, .con
i nomi di Dionisio, Guglielmo e Carlo.
Il primo
nome in ricordo del nonno paterno il secondo in ricordo del padrino,
Guglielmo Rossi, mercante triestino. La madre era Gioseffa Oberdank,
nata a Gorizia nel 1830 residente nella borgata di Sampasso da
moltissimi anni con cittadinanza italiana. Cittadinanza confermata
dall’ufficio anagrafico di Gorizia, infatti nei “ censimenti “
dell’impero la famiglia aveva sempre dichiarato di essere di
nazionalità italiana. Il padre naturale era Falcier Valentino (o
Falzier) era veneto di professione panettiere e allora prestava
servizio nell’armata austriaca.
Poiché
il matrimonio tra i genitori non fu contratto, Guglielmo assunse il
cognome della madre, quando aveva già quattro anni, la madre si
sposò regolarmente con Francesco Ferencich da cui nacquero altre
figli che ebbero sempre un ottimo rapporto con Guglielmo.
Occorre
anche evidenziare che nel censimento del 1865 il Ferencich inserì
Guglielmo nel foglio di famiglia, atto questo che lascia ampiamente
ipotizzare anche la volontà di legittimarlo, presumibilmente
ostacolato da difficoltà di carattere legale dell’epoca. Pertanto
è possibile affermare che ombre o dubbi sulla nazionalità di
Guglielmo sostanzialmente non sono tali da attribuirgli nazionalità
diversa da quella Italiana. Per completezza delle informazioni è
doveroso ricordare che spesso il cognome della madre Oberdank è
stato scritto anche con la ck finale e qualche volta anche con ch
finale ma ciò non contrasta con il fatto che la famiglia d’origine
della madre da diverse generazioni era iscritta fra quelle di
nazionalità italiana. Certo tale “discussione” spesso anche con
toni accesi non scalfì mai l’amore di Guglielmo per l’Italia. –
Le
modeste condizioni economiche della famiglia non impedirono ai
genitori di avviare Guglielmo agli studi anche se l’inizio non fu
incoraggiante, tuttavia egli concluse i suoi studi il 20 luglio del
1877 con il massimo dei voti e fu proclamato maturo con distinzione
per l’ammissione ad un Politecnico. Dai documenti scolastici e
dalle testimonianze dei compagni di studio si evidenzia un carattere
generoso con fermezza d’animo esemplare, l’amore per il bello e
l’ardore per le idealità civili. Fu sempre amato ed apprezzato dai
suoi maestri e benché di condizioni economiche modeste fu ammesso ai
salotti letterati e politici della città, ove le sue doti umane e
culturali furono sempre apprezzate. Ricordi relativi a quel periodo
sono in gran parte della pittrice Argelia Butti e di Piero Vendrame,
ma tale periodo nella sua formazione spirituale assume notevole
importanza poiché allora si realizzò la coscienza politica di
Guglielmo, grazie anche ad una profonda conoscenza degli scritti di
Mazzini che con notevoli difficoltà riuscivano ad evitare i
sequestri della polizia austriaca o a passare quasi indenni tra la
corrispondenza privata. Dagli scritti di Mazzini Oberdan apprese la
religione del sacrificio inoltre apprezzò molto l’opera del
Guerrazzi ricordando anche che questi nell’opera Lo Assedio di Roma
aveva voluto rendere omaggio ai triestini che avevano difeso Roma ed
in particolare a Giacomo Venezian deceduto per le ferite riportate
nello scontro del Vascello. Benché giovanissimo Oberdan non poteva
avere un concetto ed un criterio politico completo e ben definito
Riuscì a
perseguire un ideale che era quello della patria irredenta che con
impegno costante si dedicò ad esso. Tuttavia nell’autunno del 1877
(il 12 ottobre) a soli diciannove anni Oberdan per proseguire gli
studi presso il Politecnico si recò a Vienna ove seguì con
regolarità gli studi almeno fino al luglio dell’anno successivo.
Gli studenti italiani a Vienna erano numerosi ed in quel periodo
molti avevano legami di amicizia con i polacchi presenti nella
capitale austriaca, e tutti speravano che il trattato di Berlino in
corso di definizione decretasse l’unità politica e l’indipendenza
della Polonia. Quando il 1 luglio 1878 fu comunicato ufficialmente
che il Congresso di Berlino aveva dato mandato all’Austria di
invadere la Bosnia Erzegovina per sedare le agitazioni interne a tale
regione, l’Austria proclamò una mobilitazione ridotta per poter
adempiere al mandato ricevuto (era stato concordato con Germania ed
Inghilterra). Inoltre il giorno 16 dello stesso mese fu vietato alla
stampa austriaca di pubblicare qualsiasi notizia in merito ai
preparativi militari in corso.
A Trieste
tale circostanza provocò notevole disagio tra i giovani poiché
vedevano abolito il diritto a non prestare l’obbligo del servizio
militare che era stato in vigore per Trieste fino ad alcuni decenni
prima, inoltre i giovani istriani e dalmati non gradivano indossare
l’uniforme austriaca..
Sempre il
16 luglio 1878 un proclama di Garibaldi ed Avezzana unitamente ad un
appello del Comitato Triestino per le Alpi Giulie con parole forti
invitava i giovani trentini, triestini ed istriani ad insorgere. Tali
appelli produssero numerose diserzioni nell’esercito austriaco
tanto che l’Imperatore chiese al presidente del consiglio di essere
costantemente informato in merito.
A tal
punto è necessario evidenziare quali erano gli obblighi militari di
Guglielmo verso il governo austriaco. Al compimento del ventesimo
anno i giovani residenti nelle terre irredente avevano l’obbligo di
sottoporsi all’esame personale per la leva ed Oberdan adempì a
tale obbligo il 26 marzo 1878. Pertanto fu arruolato nel reggimento
di fanteria Maresciallo Giuseppe barone Weber . Reparto questo a cui
erano assoggettati tutti i giovani delle province meridionali
dell’impero asburgico. Inoltre ad Oberdan fu riconosciuto il
diritto di un anno di volontariato e fu iscritto fra i volontari a
proprie spese. La chiamata alle armi, era prevista per l’ottobre
1880 ed era possibile anche ottenere una dilazione per il
completamento degli studi, ma la mobilitazione parziale indetta
dall’Austria anticipò la chiamata alle armi al luglio del 1878.
Sul ritorno di Oberdan da Vienna a Trieste e la successiva fuga in
Italia sono state riportate diverse narrazioni pertanto ritengo più
corretto considerare la narrazione fatta dal patrigno di Oberdan alle
autorità austriache anche perché essa è quella più documentata.
La deposizione resa dal patrigno il 13 settembre 1878 al Tribunale
provinciale di Trieste riporta che il foglio di chiamata fu inviato
dal padre a Vienna preavvisandolo a mezzo telegrafo. Pertanto Oberdan
ritornò a Trieste e si presento subito in caserma. Inoltre gli fu
concessa la possibilità di dormire a casa ove aveva una sua
cameretta. Una sera ritornando tardi da Sesana il patrigno, notata
l’assenza di Guglielmo, chiese notizie a sua moglie che rispose
dicendo che Guglielmo verso le 19 era arrivato a casa aveva
indossato gli abiti borghesi per recarsi con amici alla trattoria
Wastl, dopo tale comunicazione andò a letto tranquillo, ma al
mattino successivo notò che Guglielmo non era ritornato a casa. Dopo
qualche ora un caposquadra venne a chiedere di Guglielmo ma non
essendoci, andò via per ritornare dopo circa due ore e ritirare
l’uniforme e per invitarmi a presentarmi in caserma, cosa che fu
fatta regolarmente.
Quella
notte Guglielmo con altri due compagni fuggì in barca e dopo tre
notti di viaggio fortunoso sbarcarono su una spiaggia tra Fano e
Senigaglia successivamente proseguirono per Ancona.
In questa
città furono accolti calorosamente dal direttore del “Lucifero”
Domenico Basilari (tale giornale repubblicano è ancora in vita ed io
lo ricevo regolarmente) unitamente al conte Bosdari ed all’avvocato
Aurelio Salmona per il quale Oberdan aveva una lettera di
presentazione. In Ancona era presente una numerosa comunità di
profughi istriani giunta in quei giorni per gli stessi motivi.
In
occasione di un comizio conobbe Matteo Renato Imbriani Poerio che il
21 maggio del 1877
Aveva
fondato a Napoli l’Associazione “Pro Patria Irredenta” da
allora i due non solo furono amici ma l’amicizia divenne quasi una
venerazione per entrambi tanto che ogni azione progettata o attuata
da Oberdan fu sempre concordata e preparata con Imbriani.
Imbriani
è anche colui che per primo nel 1872 utilizzo il termine
“irredentismo” per esporre le aspirazioni dei cittadini istriani
e dalmati dell’impero asburgico.
Un amico
di Oberdan residente in Roma, appreso del suo arrivo lo invitò a
raggiungerlo, ma egli preferì restare in Ancona fino all’autunno.
Giunse poi a Roma si unì ai numerosi esuli triestini ed istriani e
con alcuni abitò in una cameretta di una casa tra Montecitorio e
Piazza Navona.
Presto fu
noto fuori della cerchia degli esuli tanto da partecipare con un
proprio discorso alla commemorazione dei fatti di Villa Glori del
1867 .
Inoltre
cercò di continuare i suoi studi e per vivere si procurò lezioni e
lavori di disegnatore ebbe anche un sussidio di emigrazione erogato
tramite il Comitato Triestino Istriano per le Alpi Giulie in Roma .
Tale associazione nel gennaio del 1879 si costituì in Società
assumendo la denominazione Associazione per le Alpi Giulie, Unione di
Roma e per raccogliere fondi pubblicò anche una strenna a cui
Oberdan partecipò attivamente. L’ingegno di Guglielmo fu ben
presto apprezzato, tanto che durante l’ultimo anno ricoprì
l’incarico di assistente di chimica presso il Regio Istituto
Tecnico di Panisperna, fece alcuni lavori per la Direzione di
statistica e fu anche disegnatore presso il ministero
dell’agricoltura e commercio. Chi lo vide in Roma dal 1878 al 1882
narra che egli era sempre raggiante di entusiasmo, e che i suoi occhi
cerulei si figgevano sempre in un punto ignoto e lontano, quasi a
cercarvi un ideale irraggiungibile. Oberdan non pensava, non viveva
che per la sua Trieste. Era quello l’ideale purissimo per cui egli
non si lagnava della miseria, non sentiva tutta la sua sventura, per
cui trovava di poter vivere. La vita esemplare, l’ingegno pronto,
la seria tempra di studioso, la franca collegialità, i sentimenti
magnanimi, gli entusiasmi patriottici, il complesso carattere insomma
di giovane virtuoso che era in lui fecero si che non solo tra i suoi
compaesani e compagni di lotta , ma anche fra la gioventù
universitaria romana Guglielmo fosse ben voluto e stimato, tanto che
negli ultimi tempi, quale socio del Circolo Universitario Democratico
ne divenne rapidamente un esponente di primo piano. Le sue parole
vibravano come dardi, parlava di rado ma con senno e spesso della sua
Trieste, era uno dei migliori studenti. Condannò l’alleanza italo
austriaca poiché provava uno sdegno profondo, come davanti ad un
crimine di lesa patria. Negli anni romani lo spirito di sacrificio si
radicò in Guglielmo per cui ritenne necessario che per la causa di
Trieste fosse necessario un martire, allora nel suo animo restò
ferma la risoluzione suprema, come da vero matematico la definì
Cavallotti, per cui quando gli eventi furono per lui maturi passò
all’azione.
Oberdan
partecipò anche ai funerali di Garibaldi in Roma, portava la
bandiera di Trieste abbrunata gli era stato accordato un posto
d’onore dietro al feretro, subito dopo la rappresentanza della
municipalità parigina. Quando il corteo passò davanti piazza
Colonna egli notò che ai balconi di palazzo Fiano sede
dell’ambasciata austriaca vi erano l’ambasciatore e gli
impiegati, alzò lo stendardo minacciosamente in atto di sfida tanto
che i poggioli si spopolarono immediatamente.
Nel
maggio dell’anno precedente a Trieste su iniziativa del barone de
(von) Pretis Cagnodo si preparavano i festeggiamenti per il quinto
centenario dell’appartenenza all’Austria di Trieste mediante
l’allestimento di una esposizione, logicamente la parte democratica
dei cittadini ed una buona parte del Consiglio Comunale fu contraria
ma le pressioni da Vienna nonché i contributi dei ministeri resero
possibile il primo agosto del 1882 l’inaugurazione dell’Esposizione
da parte dell’Arciduca Carlo Lodovico d’Austria. Tuttavia già
nei giorni precedenti le organizzazioni irredentistiche presenti in
Trieste erano decise a non rendere tranquilla la manifestazione,
infatti nella note tra il 29 e 30 agosto era stato distrutto il
vessillo sociale della società Unione Operaia Triestina, sodalizio
fortemente austriacante, inoltre nella città furono distribuiti
molti proclami delle associazioni irredentiste. La sera del giorno 2
agosto alle 21 mentre la fiaccolata dell’ Adunata dei veterani
austriaci, partita dalla Caserma Grande e si dirigeva verso il Corso
per rendere omaggio all’arciduca Carlo Lodovico, fu gettata una
bomba in prossimità di via San Spiridione causando la morte di uno
spettatore e ferendo dodici persone tra i quali il presidente
dell’associazione dei veterani Raeeke ed il direttore del giornale
Triester Zeitung dott. Dorn. Tale azione fu preparata dall’Oberdan
che riuscì a varcare il confine dopo essersi sbarazzato della bomba
all’Orsini non utilizzata buttandola in mare.
Tuttavia
il ritorno in Italia di Oberdan fu tempestivo tanto che lasciò
presso l’anziana signora Caterina Anagno nata Cerkvenik una
valigetta contenete alcune lettere a lui indirizzate. A causa del
successivo sfratto per morosità dell’Anagno nel successivo mese di
settembre le lettere furono consegnate alla polizia e furono poi
oggetto di tre interrogatori dopo l’arresto di Oberdan nel mese
successivo.
Logicamente
la polizia austriaca indagò con impegno senza riuscire almeno allora
ad individuare l’autore o gli autori di quell’episodio. L’unico
risultato concreto raggiunto fu un maggiore controllo della stampa
irredentistica clandestina che veniva introdotta nella città di
Trieste e per tali fatti alcuni marittimi furono denunciati.
Dopo la
fuga da Trieste Oberdan per qualche tempo soggiorno in Friuli prima a
Udine e poi a San Daniele ove fu ospite di Maria Ongaro
superstite di una famiglia di patrioti friulani che avevano
partecipato anche all’insurrezione mazziniana del 1864 nonché
parente dei Delfino di Trieste. Si narra che Oberdan fu accolto con
molto entusiasmo anche dalle figlie della signora Maria e pronunciò
la seguente frase:
“ Beate
loro che hanno la patria libera e che hanno avuto un Andreuzzi e
tanti altri che seppero lottare e cooperare per la redenzione della
patria. Bisognerebbe che anche Trieste avesse tali uomini e sopra a
tutto bisognerebbe che anche Trieste avesse un martire.” .
Dopo il
soggiorno in San Daniele, partì per Udine per recarsi prima a
Napoli poi a Roma e per qualche giorno a Genova per poi ritornare a
Roma. Qui verso la fine di agosto, fu presentato agli amici di un
giornale repubblicano “il Dovere” a cui espose il suo progetto
ideato con Ragosa e già approvato anche dai comitati triestini.
Tuttavia si ritenne opportuno richiedere anche il parere dei
principali esponenti del partito repubblicano che erano a Forlì
questi ultimi disapprovavano il progetto, ma Guglielmo ancor più di
Ragosa era fermamente deciso ad attuarlo. Il dodici settembre venne
ufficialmente annunciata, con relativo programma, la visita
dell’imperatore a Trieste per celebrare degnamente il quinto
centenario della presenza austriaca a Trieste, l’arrivo
dell’imperatore era previsto per il giorno 17 settembre.
Oberdan e
Ragosa, partirono per Udine per vie diverse Ragosa via Orte Firenze
Bologna e Oberdan
passando
per Pisa Genova Milano Verona giunsero a Udine al mattino del giorno
15 settembre ma in ore diverse. A Udine si incontrarono con il
Pontotti su indicazione di Imbriani. Pontotti comunicò ai due che
dopo l’attentato del 2 agosto i confini con l’Austria erano
presidiati con particolare attenzione inoltre la stessa polizia
italiana vigilava costantemente sull’attività delle organizzazioni
irredentistiche. A Udine prestava servizio un ispettore di pubblica
sicurezza toscano Giamboni già al servizio del granduca e secondo
alcuni fu questi ad informare la polizia austriaca della presenza di
Oberdan.
Solo così
può essere spiegato il sicuro arresto di Oberdan. Anche Cavallotti
nel suo discorso a Pistoia parla dell’iscariota indicando Giamboni.
Tuttavia il prefetto di Udine Gaetano Brussi, cospiratore e fervente
patriota inviò due suoi agenti fidati per fermare Oberdan ma questi
giunsero troppo tardi.
Molti
storici o meglio la gran maggioranza di essi ritiene che ci fu un
vero e proprio caso di delazione da parte di qualcuno che conosceva
il piano si dice anche di un telegramma “convenzionale” fu
inviato da Roma a da Venezia per segnalare la partenza di Oberdan.
Inoltre è
da ricordare che in quel periodo l’azione del governo Depretis
provocò lo sdegno della Società Friulana dei Veterani e Reduci
delle Patrie Battaglie tanto da emettere un ordine del giorno con il
quale si biasimava e si protestava per il controllo da parte della
polizia di cittadini che avevano combattuto per la patria. Il 15
settembre Oberdan e Ragosa si recarono a Buttrio ove furono ospitati
dal farmacista Giordani e cercarono anche un contrabbandiere per
varcare il confine.
(QUANTO
SEGUE è negli atti giudiziari dell’epoca poiché esistono diverse
versioni sull’arresto di Oberdan ma tutte con scarsa documentazione
attendibile anzi molto spesso incompleta)
La
persona trovata fu Angelo Tavagnacco che a causa delle pessima
condizioni atmosferiche di quella notte rinviò il passaggio del
confine al giorno seguente. Il mattino seguente alle cinque partirono
per varcare il confine. Oberdan nel lasciare la casa del Giordani
lasciò alcuni oggetti oltre al bastone ed una piccola valigia con un
libro che furono tutti nascosti dalla moglie del Giordani quando si
ebbe notizia dell’arresto di Oberdan.(tali oggetti sono ora
custoditi nel museo civico di Udine).
I due
patrioti e la guida giunsero a Versa verso le sette del mattino ed
ivi Oberdan pagò il contrabbandiere per proseguire il viaggio in
vettura condotta dal vetturale Sabbadini che alle ore dieci giunse a
Ronchi presso la locanda di Giovanni Berini ove Oberdan si fermò
perché stanco e Ragosa proseguì il viaggio per Trieste con altra
vettura.
Intanto
il contrabbandiere guida Tavagnacco nel suo viaggio di ritorno a
Buttrio incontrò l’agricoltore Giorgio Gregoratti e il fattore
del conte Agricola di Udine Antonio De Marco
che lo
interrogarono su quelli che aveva accompagnato. Il Tavagnacco riferì
ai due che uno dei forestieri, Oberdan, lo aveva avvertito che in
caso di incontro con la forza pubblica occorreva separarsi e
scappare. Successivamente il Gregoratti riferì tutto al ricevitore
doganale di Chiopris mentre il De Marco riferì al podestà di
Lodovico Serravalle obbligando il Tavagnacco a ripetere quanto detto
prima.
Successivamente
il De Marco ed il Serravalle, si recarono a Gradisca per denunciare
tutto al capitano distrettuale avvertendo anche il podestà di Versa
Gian Natale Baldassi. Questi invio un messo comunale ad avvertire il
capo dei gendarmi di Versa Tommasini, che era per servizio a Gradisca
intanto a Versa veniva fermato il vetturale Sabbadini di ritorno da
Trieste.
Il capo
dei gendarmi Tommasini ricevuta la notizia si recò a Gradisca ove
incontrò tutti i sopra citati per poi farsi accompagnare dal
Sabbadini a Ronchi all’osteria dove i due giovani si erano fermati.
Tommasini ipotizzando di essere in presenza di disertori
dell’esercito italiano,. giunti all’osteria si recò nella
stanza di Oberdan, dopo averlo fatto riconoscere dal Sabbadini,
chiese le generalità e gli furono mostrati documenti intestati a
Giovanni Rossi. Qualche istante dopo Oberdan tirò fuori un revolver
senza riuscire a sparare per cui seguì una violenta colluttazione
che terminò con l’arresto di Oberdan grazie all’intervento
dell’oste e di due avventori dicui uno era il Gregoratti e l’altro
un certo Minassi.
Oberdan
fu pertanto condotto dal consigliere di Luogotenenza Vintasgau che
dispose una immediata perquisizione della stanza in cui era stato
Oberdan rinvenendo così le due bombe e le munizioni portate al
seguito. Verso le cinque del pomeriggio giunse anche il giudice conte
Dandini che iniziò l’istruttoria interrogando l’arrestato che
continuò a chiamarsi Giovanni Rossi, senza curarsi in alcun modo di
limitare le proprie responsabilità anzi esagerò volutamente i suoi
intendimenti e l’italianità di Trieste. Pertanto fu indiziato di
alto tradimento e sottoposto a custodia preventiva. Intanto Ragosa
giunto a Trieste proseguì per l’Istria ma durante il viaggio
seppe dell’arresto di Oberdan si nascose da amici per tre giorni
per poi fuggire in barca a Venezia e proseguire poi per Roma. Ancora
oggi non si conosce con esattezza quanto Oberdan si fece riconoscere
con le proprie generalità, presumibilmente quando fu certo il suo
trasferimento a Trieste, il primo verbale di interrogatorio in cui
appare il suo vero nome è quello del 27 settembre
I
giornali triestini avevano già pubblicato il suo nome il 18
settembre giorno successivo al suo arrivo a Trieste che coincise
anche con la visita del sovrano asburgico. Oberdan fu sottoposto ad
interrogatorio ancora il 30 settembre dagli organi giudiziari civili.
Il 7 ottobre fu consegnato alle autorità militari e solo il 9
ottobre fu interrogato dagli organi giudiziari militari, Quello
stesso giorno indirizzò una lettera alla madre per ringraziarla
della visita fatta dal padre. Il processo ad Oberdan ancora oggi per
l’ Austria rappresenta un processo svolto con molte ombre sul
rispetto delle norme penali dell’epoca, esse apparvero già sulla
stampa viennese del giorno 19 ottobre ossia il giorno successivo
della visita della madre a Guglielmo il 15 ottobre con lo scopo di
indurlo a chiedere la grazia. Al termine della visita la madre cadde
svenuta e successivamente si recò a Vienna accompagnata da un legale
per consegnare una domanda di grazia all’imperatore e al conte
Taaffe, il primo era a Budapest per cui la domanda fu spedita ed il
secondo ricevette la donna per dichiararle di non essere utile perché
trattatasi di questione militare per cui era opportuno sperare nella
grazia dell’imperatore. Secondo alcuni organi di stampa dell’epoca
la sentenza era già stata pronunciata dal Tribunale Militare supremo
di Vienna il 20 ottobre. Inoltre ci fu disparità di giudizio tra i
componenti del collegio giudicante. Infatti il comandante militare di
Trieste già ex capo di stato maggiore generale Schonfeld si sarebbe
rifiutato di firmare la condanna a morte, e un vecchio uditore
giudiziario di Innnsbruck, consultato per un parere dichiarò
inammissibile la condanna a morte, inoltre il procuratore di stato
Schrott sosteneva che la pena massima da concedere era di 20 anni di
fortezza. Questi tre esponenti del mondo giudiziario poco tempo dopo
dalla sentenza capitale, furono trasferiti ed uno di essi collocato
in quiescenza. La sentenza di morte costituiva una evidente
forzatura della norma relativa al reato di lesa maestà, ciò
soprattutto in considerazioni del fatto che le prove certe erano solo
costituite dalla diserzione, dalla resistenza a mano armata a
pubblico ufficiale, di possesso illegale di ordigni esplosivi e di
aver espresso l’opinione di voler attentare all’imperatore.
Occorre anche ricordare che per lungo tempo i giovani triestini erano
stati esentati dal servizio militare ed una alterazione di tale
“privilegio” fu proprio la mobilitazione per la Bosnia
Erzegovina.
A
caratterizzare le anomalie del processo fatto ad Oberdan è anche un
difetto di competenza giurisdizionale infatti il tribunale competente
doveva essere quello di Gorizia poiché Monfalcone dipendeva da esso.
Effettivamente il giorno 17 settembre il giudice istruttore di
Gorizia avuta notizia dell’arresto si recò con il procuratore di
stato si recò a Ronchi per i rilievi del caso anche in accordo con
il giudice di Monfacone , ma quello stesso giorno giunse l’ordine
non dal tribunale ma dal direttore di polizia in accordo con il
procuratore superiore di stato il trasferimento di Oberdan a Trieste.
Il procuratore superiore Schrott inoltre elimina di autorità ogni
obiezione e invia il processo alla procura di Trieste. Il giorno
seguente il tribunale di Gorizia ratifica il trasferimento a Trieste
ai sensi dell’articolo 56 del codice di p.p. senza però accertare
se la fattispecie del caso Oberdan è tra quelli previsti dal codice
per il trasferimento. Inoltre dai documenti relativi all’avvio del
processo a Trieste non si fa alcuna menzione al reato di diserzione,
ciò fu dovuto al fatto che il tribunale di Trieste voleva accampare
meriti presso la corte. Infatti le autorità militari per ben due
volte sollecitarono la consegna del prigioniero e solo il 4 ottobre
fu consegnato ad essa, in tale circostanza tutti i documenti della
consegna furono retrodatati al primo ottobre. Tutte queste
irregolarità generano notevoli dubbi sulla correttezza del
comportamento delle autorità austriache.
A
condannare Oberdan furono sicuramente le sue continue dichiarazioni
di ostilità verso il governo e l’imperatore austriaco rese alle
autorità inquirenti. Non dimentichiamo che nel 1849 dopo la caduta
di Venezia a Udine fu fucilato, con sentenza di un tribunale militare
Giacomo Grovic solo perché aveva parlato male dell’Austria mentre
vigeva ancora la legge di guerra. Il processo a Oberdan già allora
manifestò alcune pesanti ombre tanto che il giornale Allgemeine
Zeitung riportò un articolo molto critico che si terminava con la
seguente frase: “la situazione di Trieste richiede luce e non
misteri”. L’atteggiamento non corretto della autorità
giudiziaria fu essenzialmente dovuta al fatto che il ministero della
giustizia austriaca già dopo l’episodio del due agosto aveva la
ferma intenzione di sottrarre i processi all’ambiente locale, tale
comportamento costituiva una palese violazione del diritto
dell’imputato ad essere giudicato dal suo giudice naturale. Tale
situazione giuridica ebbe ulteriore conferma con il processo al
Sabbadini che iniziato tempo dopo e concluso con la pesante condanna
a 12 anni di carcere per aver solo trasportato due patrioti di cui ne
ignorava le generalità. Il tribunale supremo militare di Vienna
emise la sentenza di condanna a morte mediante impiccagione il 4
novembre 1882 fu firmata dal Luogotenente Feld Maresciallo Knebel .
In Italia la notizia della condanna a morte provocò numerose
manifestazioni antiaustriache soprattutto quelle degli universitari
bolognesi. La mattina del 19 dicembre 1882 il tribunale militare si
riunì per leggere la sentenza a Oberdan che l’ascoltò scrollando
le spalle senza tradire alcuna emozione.
Fu
ricondotto in cella e sottoposto alla vigilanza di due sentinelle,
durante tutto il giorno fumò più del solito e si divertiva gettando
il fumo sulle sentinelle. Inoltre gli furono offerti i conforti
religiosi che rifiutò per ben due volte dicendo: “ Sono
matematico e Libero Pensatore, né credo nell’immortalità
dell’anima” inoltre rifiutò l’incontro con i suoi congiunti. A
tal punto è corretto evidenziare che Oberdan aderì alla Libera
Muratoria soprattutto per il particolare legame di amicizia e di
“cospirazione” che lo legava a Matteo Renato Imbriani Poerio .
Trascorse la notte precedente all’esecuzione con tranquillità ma
costantemente spiato dalle guardie per prevenire atti di
autolesionismo. Oberdan si svegliò alle cinque del mattino e per
evitare segni di agitazione lesse un libro almeno fino alle ore sei
per poi sorbire una tazza di caffè latte, trascorse il resto del
tempo fumando e passeggiando nella cella.
La forca
allestita nel carcere non era una forca di forma classica ossia di
L rovesciata ma semplicemente un palo di circa quattro metri di
altezza sulla cui sommità era fissato un robusto uncino dal quale
pendeva un robusto capestro.
Oberdan fu condotto fuori
dalla cella nel cortile dove erano gia schierati un battaglione del
reggimento Arciduca Alberto e altre due compagnie con bandiera e
tamburi (questi listati a lutto)
Guglielmo
indossava solo la giubba del reggimento Weber e dopo che il maggiore
Fongarolli lesse nuovamente la sentenza fu consegnato al carnefice,
in quel momento si avvicinò ancora il cappellano ma Obedan gli disse
“Va via prete, non ho bisogno di te” e tolta la giubba gridò al
boia
“ fa
presto “ mentre il boia con due aiutanti gli legava le braccia
pronunciò le seguenti parole (riportate da un soldato ungherese che
conosceva bene la nostra lingua) “Muoio esultate, perché spero
che la mia morte gioverà in breve a riunire la mia cara Trieste
alla madre patria” .
Che
Oberdan abbia parlato tutti poterono affermarlo benché il rullo dei
tamburi coprisse le sue parole. Alle sette il capestro austriaco
strozzava l’ultimo grido del martire “Viva Trieste libera, viva
l’Italia, viva l’It “…ma ancora per altri sei minuti il corpo
di Oberdan si dibattè nell’agonia e solo dopo che il medico del
reggimento accertò la morte il cadavere fu staccato dalla forca e
portato nella cella..
Alle 17
la salma fu portata all’ospedale militare ove fu sottoposta a
sezione giudiziaria che terminò alle 20 e alle 23 fu rinchiusa in un
cassone e condotta con un furgone, sotto scorta, al cimitero militare
ove fu sepolta.
Secondo
voci dell’epoca pare che al cadavere del patriota durante
l’autopsia sia stata troncata la testa da inviare al museo
antropologico di Vienna per studiarne il teschio. Tale voce non
stupisce se si pensa che secondo alcuni storici la testa di Giacchino
Murat (1815) fu inviata a Ferdinando IV di Borbone che la tenne
presso di se fino alla sua morte.
Il
sacrificio di Oberdan resta dunque sempre, ancora oggi, monito ai
popoli, ai governi, ai despoti, ai dittatori. Gli avvenimenti
politici successivi non hanno offuscato il valore della sua
testimonianza di fede nell’idea mazziniana di libertà.
CARLO A.R.
PORCELLA
Bibliografia
Nel
25/mo anniversario dell’impiccagione di Guglielmo Oberdan-
appunti biografici e storici a cura del Comitato segreto della
Gioventù triestina – Udine premiata Tipografia Tosolini 1907
Guglielmo
Oberdan secondo gli atti segreti del processo carteggi diplomatici e
altri documenti inediti- Francesco Salata – Bologna –
Zanichelli 1924
Guglielmo
Oberdan – Numero unico in occasione del centenario della
nascita 1858- 1 febbraio 1958- scritti di A. Bandini Butti, G. Bruni,
V. Furlani, G. Stuparich – Trieste Associazione Mazziniana sezione
di Trieste 1958 – Udine Del Bianco.
In
memoria di Antonio Giordani – Comitato onoranze nel 40/mo
anniversario dell’ospitalità offerta ad Oberdan, 22 settembre
1922- Udine – Stab. Tip. Gustavo percotto & Figlio 1922
L’ora
di Trieste – Giulio Caprin - Firenze- Bemporad& Figlio –
Libreria A. Feltrami 1915
XX
dicembre – in memoria di Guglielmo Oberdan –s.n. 1883
Quando
non si poteva parlare … ed altri discorsi- Ferdinando Pasini –
Trieste Libreria Internazionale c.u. Trani 1921
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13 settembre 2012
La persecuzione antimassonica in Italia: dal falso scandalo P2 all'inchiesta Cordova

La persecuzione antimassonica, chissà
mai perché, non fa gran che notizia. Sarà perché ci hanno
voluto far credere che la Massoneria è un centro di "poteri
occulti", centro segreto di chissà quali nefandezze mafiose e
criminali. E dunque, pertanto, i massoni meritano di essere
perseguitati. E' antica la persecuzione antimassonica ed è stata
costruita ad arte, sin dai tempi più antichi. Pensiamo al Medioevo,
ove le varie confraternite gnostiche, catare, esoteriche saranno
perseguitate dalla Chiesa cattolica in quanto considerate "eretiche",
poiché ritenevano che la Divinità andasse ricercata anche in sé
stessi, senza l'ausilio di sacerdoti o di Papi. Pensiamo al
Settecento, ove le prime Logge massoniche, le quali recuperavano
proprio le tradizioni delle antiche confraternite, erano guardate con
sospetto da Trono ed Altare, ovvero dai Re e dai Papi, i quali
ritenevano che in esse potessero annidarsi pericolose sette
rivoluzionarie e sarà così per tutto l'Ottocento, al punto che vi
saranno anche massoni farlocchi come Léo Taxil che faranno soldi a
palate inventandosi di rituali orgiastici in seno alle Logge
massoniche e della presenza dello stesso Belzebù a capo dei
lavori. Il Novecento, invece, sarà il secolo delle dittature, le
quali non mancheranno di imprigionare i massoni nei lager, nei gulag,
di mandarli al confino, come in Italia, ove saranno bruciati gli
arredi dei Templi e distrutte le Logge. Ed anche nella solo
formalmente democratica Italia di trent'anni dopo la liberazione dal
fascismo, ecco rispuntate pericolose leggi e tendenze antimassoniche.
Dal 1975 al 2000, infatti, la Massoneria italiana subirà le più
grandi persecuzioni mai avvenute. Ce lo raccontarono e ce lo
raccontano diversi studiosi, fra cui Pier Carpi, il prof. Luigi
Pruneti, il prof. Aldo A. Mola, ma c'è un bel libretto, patrocinato
dalla Gran Loggia d'Italia degli ALAM ed edito da Arktos nel 1998,
che merita particolare attenzione e dal quale ho avuto modo di
attingere ulteriori informazioni. E' scritto da Donatello
Viglongo, già Gran Segretario Aggiunto del Grande Oriente d'Italia
dal 1976 al 1981 ed ha il titolo significativo di "Roghi di
Stato". Veri e propri roghi, quelli raccontati da Viglongo,
che ebbero inizio con il falso scandalo P2, sollevato inizialmente da
presunti "massoni democratici", proseguito con la
sottrazione e la pubblicazione degli elenchi di gran parte dei
massoni d'Italia e di un presunto elenco di affiliati alla Loggia
Propaganda nr. 2, gettati così in pasto alla gogna mediatica e
conclusosi il tutto con assoluzioni piene con sentenze definitive del
1994 e del 1996. In effetti che cosa era la Loggia P2, se non una
Loggia particolare, fondata alla fine dell'800, al fine di
raccogliere personalità importanti del mondo della cultura, della
politica, delle forze armate, dell'industria del Paese che, per
ragioni di particolare riservatezza avevano necessità di tenere
nascosta la loro appartenenza all'Ordine massonico ? Erano costoro
dei criminali ? Erano criminali Giosue Carducci, Ernesto Nathan,
Menotti Garibaldi (primogenito dell'Eroe dei due Mondi e di Anita),
Aurelio Saffi, Agostino Bertani e, in tempi più recenti, il
repubblicano Emanuele Terrana, il comico Alighiero Noschese, il
cantante Claudio Villa, lo scrittore Roberto Gervaso, il Generale
Carlo Alberto Dalla Chiesa ? Difficile da credere. Tanto più che,
costoro, non si riunirono mai tutti assieme. E, pertanto, ma
complottarono contro alcunché, come invece scrissero i media e
raccontò la Commissione parlamentare presieduta dall'On. Tina
Anselmi e da altri parlamentari, i quali nulla o quasi nulla
conoscevano di ritualità massonica. Fu, ad ogni modo, quella del
falso scandalo P2, occasione ghiotta per la politica di allora e per
i mass media di gettare un po' di fumo negli occhi nei confronti dei
cittadini-elettori. Ricordiamoci che eravamo in pieno fermento
terroristico e di lì a poco la gran parte della classe politica di
allora avrebbe lasciato morire Aldo Moro per mano delle Brigate
Rosse, in nome di una presunta "fermezza" (sic !). Ed
allora, come un tempo Hitler in Germania dette la colpa della crisi
economica agli ebrei, ecco che i politici, i magistrati, i "massoni
democratici" in odor di potere ed i mass media a caccia di
gossip, si inventarono la tesi golpista ordita dai massoni della P2
e, via via, dall'intera Massoneria, visto che anche l'altra grande
Obbedienza italiana, la Gran Loggia d'Italia, subì inchieste e
controinchieste ignominiose. Ed a nulla servì il documento
conclusivo stilato dalla Federazione Internazionale dei Diritti Umani
(FIDH), nel quale fu chiaramente scritto che "La Delegazione
ha, infine, ravvisato in tutta la vicenda speciosamente montata,
oltre i limiti tollerabili del buon gusto e del buon senso comune,
qualcosa che va al di là del fatto specifico in questione. Per
motivi occulti, ma facilmente intuibili sia il "Raggruppamento
Gelli", sia la Massoneria italiana del GOI, sono stati usati e dati
in pasto all'opinione pubblica per galvanizzarla e siarla da altri
importanti problemi che da troppo tempo assillano la società
italiana". Di tale documento, infatti, per anni non ne
abbiamo mai sentito parlare. Ce lo riporta integralmente Donatello
Viglongo, nel suo prezioso saggio. Curioso poi, che, allorquando i
massoni della P2 e tutta la Massoneria italiana sarà assolta con
sentenze definitive da ogni capo di imputazione di "complotto ai
danni dello Stato" (sic !), il Grande Oriente d'Italia non abbia
mai speso una parola, tanto da ritenere tutt'oggi i cosiddetti
"piduisti", ancora dei criminali (sic !). Per carità,
le pecore nere sono d'appertutto ed alcune erano annidate anche nella
Loggia Propaganda nr. 2, ma per il resto i suoi componenti erano
tutti dei galantuomini, fra i quali possiamo annoverare anche il
Generale in pensione Umberto Granati, che è un caro amico e che
alcuni hanni fa ha raccontato la sua triste vicenda, fortunatamente
finita bene, in "Diario di un piduista" (Ipertesto
Edizioni) e che, chi scrive, ha avuto il piacere di recensire. Come
se la prima persecuzione antimassonica non avesse danneggiato già
abbastanza l'immagine della Massoneria, ecco, negli anni '90,
spuntarne subito un'altra. Pochissimi
infatti sanno o ricordano che, negli anni '90, un'inchiesta senza
alcun fondamento, introdusse in Italia una nuova Santa
Inquisizione. Una Santa Inquisizione guidata dall'allora
magistrato di Palmi Agostino Cordova, il quale scatenò una vera e
propria battaglia inquisitoria contro cittadini onesti, rei
unicamente di appartenere alla Massoneria. Di tutto ciò nessuno
ricorda pressochè nulla, oppure si continua ancora a nascondere la
verità, nonostante ci siano state sentenze definitive che hanno
stabilito che Cordova aveva torto marcio. Ma, oramai, molte famiglie
e molte carriere erano state distrutte. Storia di ordinaria
ingiustizia in un Paese nel quale il magistrato sembra avere ragione
anche quando ha torto. Ad ogni modo, ancora una volta, questa
inchiesta faceva guadagnare fior fior di quattrini a certa stampa
scandalistica, con particolare riferimento alle solite "La
Repubblica" e l'"L'Unità" che sulla caccia al massone
avevano costruito la loro presunta credibilità. E a poco, anche
allora, servirono gli interventi e le aperture di Gran Maestri quali
Renzo Canova di Piazza del Gesù, il quale, come il suo predecessore
Giovanni Ghinazzi, aveva ben pensato di aprire i Templi massonici e
di garantire la massima trasparenza. Agostino Cordova, magistrato,
evidentemente completamente digiuno di Massoneria e con nessuna
voglia di informarsi ipotizzò infatti un "teorema"
totalmente privo di qualsiasi fondamento e disse: poichè
qui in Calabria c'è la 'ndrangheta ed in Sicilia la mafia che
tramano contro la stabilità dello Stato, allora dietro a loro c'è
la Massoneria che trama nel segreto. Ma
quale arguzia, per un servitore dello Stato ! Tutto ciò è più
che evidente che rimanesse un teorema astratto ed un magistrato non
può certo basarsi su congetture, bensì dovrebbe farlo per mezzo di
prove concrete, indizi, magari raccolti da Polizia e Carabinieri,
prima di lanciare accuse ed inchieste. Ma il Cordova aveva già
stabilito che i massoni italiani erano tutti colpevoli e, dunque, da
inquisire. Fu così che si attivò per acquisire tutti gli elenchi
dei massoni italiani, alcuni dei quali finiranno anche in pasto ai
media, come se fossero una lista di proscrizione, fatta di
delinquenti abituali. Inutile dire che le più colpite furono le
due maggiori Obbedienze massoniche italiane: Grande Oriente d'Italia
e Gran Loggia d'Italia, con il maggior numero di iscritti. Persone
comuni, liberi professionisti, pensionati, operai. Cittadini italiani
paganti le tasse come tanti altri. Con la sola "abitudine"
di frequentare Logge massoniche per la loro evoluzione spirituale ed
interiore ! Fatto sta che, tutto ciò, dopo aver fatto spendere
alle casse dello Stato fior fior di quattrini per l'inchiesta ed aver
rovinato numerose famiglie e carriere, non portò a nulla. Nessun
reato era stato commesso. Come volevasi dimostrare: un teorema senza
prove, è e rimane una congettura. E fu così che la Suprema Corte
di Cassazione stabilì che Agostino Cordova aveva palesemente violato
la Costituzione della Repubblica Italiana agli Articoli 13 e 14, che
stabiliscono che la libertà personale ed il domicilio sono
inviolabili e non sono ammesse forme di detenzione, ispezione e
perquisizione se non per atto motivato. Inoltre il Cordova aveva
violato gli articoli 247 e 253 del codice di procedura
penale. Purtroppo, però, il danno economico per le casse dello
Stato era ormai stato fatto e così il danno morale per i cittadini
ingiustamente coinvolti. Il 23 settembre del 2003, il magistrato
Cordova, sarà peraltro allontanato dal Tribunale di Napoli e
giudicato inadeguato. Ancora in tempi recenti si è tantato, in
alcune amministrazioni pubbliche, di reintrodurre la legislazione
fascista che impone ai dipendenti statali di dichiarare la propria
appartenenza ad associazioni quali la Massoneria, ciò in palese
violazione della Costituzione. Fortunatamente gli organismi
Internazionali e democratici hanno sempre bocciato tali legislazioni
liberticide. Sarebbe interessante, anziché raccogliare un elenco
degli affiliati alle varie Obbedienze massoniche italiane,
raccogliere un elenco dei politici, magistrati, giornalisti ed
amministratori pubblici che hanno fatto della persecuzione alla
Massoneria il loro cavallo di battaglia e la loro principale fonte di
guadagno. Tale elenco andrebbe ricordato e diffuso al fine di
avere contezza di chi sono i veri nemici della libertà e della
democrazia nel nostro Paese.
 Luca Bagatin
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17 marzo 2011
BUON CENTOCINQUANTENARIO (TERZA) ITALIA ! (e chi non la vuole ancora riconoscere se ne vada all'estero, grazie)
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8 febbraio 2010
9 febbraio 1849: proclamazione della Repubblica Romana
Anche quest'anno passerà sotto
silenzio la commemorazione della Repubblica Romana, proclamata il 9
febbraio del 1849. Giuseppe Mazzini ne fu il il
propugnatore ed ispiratore politico e fu grazie al valore
militare ed al sangue versato dai garibaldini (come Goffredo Mameli) e
dal popolo romano, che i moti insurrezionali ebbero successo ed il Papa Pio
IX si vide costretto a fuggire a Gaeta.
Passerà sotto silenzio in quest'Italia scarsamente democratica e per
nulla liberale, che purtuttavia alla Repubblica Romana dovrà le basi
della sua stessa libertà di pensiero, parola ed azione. La Repubblica Romana, guidata dal trimunvirato: Giuseppe
Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini, una volta scacciato il Papa, si dotò infatti immediatamente di una
Costituzione liberale la quale, agli Articoli I e II, stabiliva che la
sovranità spettasse unicamente al Popolo, il quale si dava per regola
tre principi fondamentali: l'eguaglianza, la libertà e la fraternità,
senza riconoscere alcun privilegio di casta o di titolo nobiliare. In
tutto il Documento si può peraltro notare come essa ricalcasse perfettamente i
principi della Costituzione democratica degli Stati Uniti d'America
redatta alla fine del '700, ovvero quanto gli USA avevano scacciato il
tirannico regime monarchico inglese. Inoltre si può notare quanto fosse
liberale e tutt'altro che antireligioso lo spirito di tale
Costituzione, la quale, all'Articolo VIII dei Principi Fondamentali
stabiliva che al Papa sarebbero comunque state concesse tutte le
"guarentigie necessarie per l'esercizio indipendente del potere
spirituale" e, all'Articolo precedente, si stabiliva la piena libertà
religiosa dei cittadini della Repubblica. Oggi certa storiografia
clericale, leghista e dunque mistificatrice, tende a descrivere i risorgimentali mazziniani di allora come
dei "briganti atei ed antireligiosi". Nulla di più falso e calunnioso,
al punto che lo stesso Giuseppe Mazzini ha sempre fatto riferimento nei
suoi scritti e discorsi a Dio, inteso come Divinità universale
antidogmatica, al di sopra di ogni Potere costituito. Nella
fattispecie la bandiera della Repubblica Romana: il tricolore verde,
bianco e rosso, recava al centro la scritta "Dio e Popolo" (che per
molti versi ricorda l'iscrizione posta sul Dollaro statunitense "In God
We Trust", adottato circa un secolo dopo, ovvero nel 1956), per
rimarcare la fede mazziniana e repubblicana nel Popolo sovrano e nella
Divinità Universale (e ciò ci rimanda per moltissimi versi al teismo
illuminista e volteriano), la quale non può ritenersi privilegio
esclusivo della Chiesa cattolica e del Vaticano. La Repubblica
Romana, purtroppo, durò solamente cinque mesi: soffocata nel sangue il 3 luglio
1849, dopo un mese di assedio, dai soldati francesi di Napoleone III
alleati con il Papa. Purtuttavia essa fu un evento storico fondamentale
e di svolta nelle lotte risorgimentali per l'unità d'Italia nonché per
gettare il seme della speranza verso la creazione di uno Stato laico,
civile e repubblicano. Uno Stato libero dall'influenza della Chiesa
e di Casa Savoia, entrambe ree di aver gettato gli italiani, specie i
popolani e le classi sociali meno abbienti in generale, nel più nero
sottosviluppo. Oggi, a scuola, di tutto ciò si insegna poco o nulla
ed è normale che, raggiunta l'età adulta, si sia poco consapevoli non
solo della propria storia e quindi delle proprie origini, ma anche dei
propri diritti e doveri. Se, quantomeno nella scuola pubblica,
ovvero in quelll'istituzione per la quale i mazziniani si batterono con
maggiore tenacia per garantire a tutti l'elevazione intellettuale,
morale e spirituale, si studiasse la Costituzione della
Repubblica Romana e i "Doveri dell'Uomo" di Giuseppe Mazzini, sono
certo che molti giovani comincerebbero a diventare veramente
consapevoli del ruolo politico attivo che ricoprono nella società.
Oggi, invece, si preferisce dimenticare o mistificare.
Denigrare la democrazia e la libertà per erigersi a custodi del nuovo
dogma: presunte radici cristiane (in realtà greco-romane), recupero del
dialetto (pur non conoscendo bene l'italiano), lotta senza quartiere al
"diverso" (in quanto frustrati e annoiati da sè stessi).
Un dogma che si fonda sull'ignoranza, sul pecorume, su una massificazione di cervelli assai poco inclini all'approfondimendo.
Anche per questo - a quasi 150 anni dall'Unità d'Italia - non va
dimenticato lo spirito della Repubblica Romana ed i principi mazziniani
che in essa trionfarono.
Principi ancor più attuali oggi di ieri: democrazia, emancipazione,
comprensione del "diverso", fratellanza in quanto riconoscimento del
principio universale del "siamo tutti nella stessa barca" e fonte di
un'unica origine: il ventre di Madre Natura.

Luca Bagatin
PS: ringrazio di vero cuore l'On. Paolo Guzzanti - già conduttore televisivo e vicedirettore de "Il Giornale", oggi vicesegretario del Partito Liberale Italiano - che stimo da sempre per le sue scelte "eretiche" e controcorrente, per aver, di sua spontanea volontà e con tanto di presentazione, pubblicato - in anteprima il 1 febbraio scorso - questo mio "solitario" articolo sul suo prevegole blog "Rivoluzione Italiana": www.paologuzzanti.it Quella che segue è la risposta che mi ha fatto pervenire
Carissimo
Bagatin
Sono io che la ringrazio, anche per non essersi
dispiaciuto di veder pubblicato il suo bell’articolo senza una
previa richiesta e autorizzazione. Ma leggendolo non ho saputo
resistere: veramente vivo, vero, autentico. Dunque spero
proprio di avere nuove occasioni di leggerla e, se non le dispiace,
di pubblicarla. Inutile dire che tutte le volte che avrà voglia
di scrivere sul mio blog io ne sarò semplicemente onorato. Grazie
di nuovo e a presto.
 Paolo Guzzanti
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23 novembre 2009
GELLI E LA P2 FRA CRONACA E STORIA: una recensione al saggio del prof. Alessandro A. Mola
Di Licio Gelli e della Loggia Propaganda 2 sono state scritte un sacco di cose. Quasi tutte pressoché a sproposito a cominciare dal fatto che fu una "Loggia segreta". La P2, Loggia all'Ordine del Grande Oriente d'Italia, fu - diversamente - una Loggia "coperta" di diretta pertinenza del Gran Maestro dell'Obbedienza. "Coperta" in quanto al suo interno vi erano personalità di spicco (del panorama culturale, politico, artistico ecc...) che - per la loro particolare posizione professionale - preferivano non rivelare l'appartenenza alla Massoneria e dunque figurare unicamente "all'orecchio" del Gran Maestro, come si dice in gergo massonico. Si pensi solo al fatto che la Loggia Propaganda Massonica (poi P2) fu fondata nel 1877 e di essa vi faceva parte anche il Vate della letteratura risorgimentale Giosue Carducci e l'ottimo ed indimenticato Sindaco di Roma Ernesto Nathan. Tutto ciò e molto altro ancora è spiegato dettagliatamente e con una ricchissima documentazione e bibliografia dallo storico Alessandro Aldo Mola - Medaglia d'Oro per la Cultura dal 1980 - nel suo ultimo saggio "Gelli e la P2 fra cronaca e storia" edito dalla Bastogi. Mola, senza faziosità alcuna, racconta di come il "presunto scandalo" P2 non fu che il pretesto per una lotta senza quartiere contro i massoni e la Massoneria italiana, da sempre vista con sospetto da settori clericali, fascisti e comunisti. Mola ripercorre così - come già fece lo scrittore Pier Carpi nel suo "Il Venerabile" nei primi anni '90 - la vita di Licio Gelli sin dai tempi della Guerra di Spagna quando combattè a fianco dei franchisti e successivamente in Italia a Capo del Fascio di Pistoia. Sino a quando salvò da morte certa 62 prigionieri fra ebrei e partigiani, evitando così la loro deportazione nei campi di sterminio in Germania. Ciò gli vantò un attestato da parte del Comitato di Liberazione Nazionale di Pistoia e gli consentì, a guerra finita, di rifarsi una vita. Prima come commerciante di prodotti di cancelleria e via via, negli anni '50, nell'ambito della Permaflex ove divenne direttore dello stabilimento di Frosinone. E così, successivamente, come racconta Mola, Gelli decise di farsi iniziare massone negli anni '60 con l'obiettivo di rendere la Massoneria un organismo in grado di risolvere le controversie internazionali e nazionali. Un po' come durante il Risorgimento italiano o con la fondazione della Società delle Nazioni e dell'ONU. Nulla, insomma, di oscuro e di occulto. Anzi. Un capitolo molto denso del saggio di Mola, oltre a quello dell'amicizia fra Gelli ed il generale Peron, è infatti dedicato alla fondazione dell'OMPAM da parte di Licio Gelli, ovvero dell'Organizzazione Mondiale Per l'Assistenza Massonica. Un organismo sovranazionale, appunto, in grado di "contribuire a soccorrere ed ad elevare le condizioni morali, spirituali e materiali dell'Uomo e della Famiglia umana, operando secondo i principi etici propri dell'insegnamento massonico", come dichiarato dal promotore stesso. Un organismo che faceva leva proprio sulla fratellanza massonica che era l'unico principio in grado di superare tutte le divisioni in fatto di politica, razza, religione.... Un organismo "alla luce del sole", che fu riconosciuto anche in sede ONU alla stregua della Fao e dell'Unesco e che si proponeva di integrare l'opera umanitaria laddove le giurisdizioni massoniche non disponessero di strutture economicamente e giuridicamente idonee per operare sia all'interno dei singoli Stati che a livello internazionale. Operazione ambiziosa che purtroppo la stampa nostrana omise di far conoscere al grande pubblico. E che si arenò con l'avvento del presunto scandalo P2, nel 1981. L'OMPAM fu tuttavia un'operazione autonoma di Gelli e per nulla legata al Grande Oriente d'Italia, anche se egli stesso propose all'allora Gran Maestro del GOI, Lino Salvini, di nominare il suo predecessore - Giordano Gamberini - alla carica di Ambasciatore del GOI presso l'OMPAM. Licio Gelli, sia detto per inciso, allora non era ancora Venerabile della Loggia P2, anche se la P2 era attiva e nota ai Gran Maestri sopra citati ed ai loro predecessori senza scandalo alcuno come spiegato all'inizio di questo articolo. Gelli fu solamente un personaggio particolarmente attivo sia all'interno che all'esterno della Massoneria. Il che lo porterà ad occuparsi di cose estranee alla stessa Istituzione come ad esempio di politica (si noti bene che le Costituzioni di Anderson del 1723, vietano espressamente ai massoni di occuparsi di politica e religione in Loggia). Ma ad ogni modo anche qui nessuno scandalo "profano", come rilevato dall'ottimo Alessandro Mola nel capitolo dal titolo "Gelli per la Seconda Repubblica". Alla metà degli anni '70 - vista l'estrema fragilità e litigiosità della coalizione di Pentapartito e l'incalzante terrorismo rosso e nero - l'Italia si trovò ad un bivio: o una dittatura clericale di estrema destra, oppure un ancor meno auspicabile regime di estrema sinistra. Licio Gelli stilò così il famigerato "Schema R" (Rinascita), all'indomani dell'avanzata del Pci alle elezioni amministrative del 1975. Lo "Schema R", come documentato dal saggio di Mola, non fu altro che un piano riformatore, che elaborava la strategia politica per arginare la dilagante avanzata dei comunisti - alleati alla dittatura sovietica - in Italia, per mezzo di un rafforzamento della coalizione di Pentapartito (Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli) a partire dalla Democrazia Cristiana, a patto che essa si depurasse da correnti ed alchimie che la rendevano inefficiente ed inefficace. L'obiettivo finale di Gelli non era altro che un ritorno ai "fasti ed al prestigio della Segreteria De Gasperi". Un rafforzamento, dunque, della democrazia centrista e moderata. Altro che autoritarismo filo-fascista tanto sbandierato dalla grande stampa dell'epoca ! Gelli delineò nel suo "Schema", anche un elenco molto preciso di riforme che - peraltro - erano condivise dalla gran parte degli italiani di allora e di oggi e che proprio oggi - trent'anni dopo - sono di scottantissima attualità e dibattito. Dalla riforma presidenziale all'abrogazione dell'immunità parlamentare; dalla riduzione ad una Camera dei Deputati sino all'abolizione dei ministeri e degli enti inutili quali le Province; dall'introduzione di pene severissime per i reati di corruzione perpetrati da politici, funzionari e pubblici ufficiali sino alla privatizzazione del carrozzone Rai-Tv. Riforme allora necessarie come lo sono oggi. Al punto che lo stesso Gelli precisò subito che tutto ciò "non preludeva ad un colpo di Stato", bensì intendeva "scongiurare l'irreparabile jattura di una guerra civile e allontanare dall'Italia il pericolo di un governo dittatoriale di ispirazione comunista o fascista". Chi accusò Gelli di cospirazione politica sulla base dello "Schema R" o fu in mala fede oppure quello "Schema" non lo lesse punto. Come i fatti - documentati dal Mola - si sono incaricati di dimostrare. Che poi, forse, il Gran Maestro di allora - Lino Salvini – avesse concesso troppo "potere massonico" a Licio Gelli, siamo d'accordo. Licio Gelli fu elevato al grado di Maestro Venerabile della P2 il 9 maggio 1975 e ciò fu un po' un'anomalia visto che la P2 era storicamente di pertinenza del Gran Maestro in carica. Come un'anomalia massonica fu che Gelli iniziasse gli aspiranti Fratelli "in punta della spada", ovvero senza alcun rituale massonico, come ricordò anche il prof. Claudio Bonvecchio in un recente convegno sulla Massoneria tenutosi a Pordenone. Ma, come il Bonvecchio ed il Mola ricordano: la P2 divenne il capro espiatorio del malaffare di gran parte delle forze politiche di allora, le quali montarono ad arte la famosa "teoria cospirazionista ai danni dello Stato", istituendo addirittura una costosissima ed inutile Commissione Parlamentare d'Inchiesta presieduta da Tina Anselmi e che si concluse con nulla di fatto. Mettendo a nudo unicamente l'ignoranza di gran parte dei politici e dei magistrati di allora in fatto di Massoneria ed Esoterismo. La P2, dunque, non era affatto una organizzazione segreta, bensì una "Loggia coperta" come ve ne sono moltissime anche all'estero e per i motivi già sopra spiegati. Il saggio di Alessandro Mola lo chiarisce, citando anche le sentenze della Corte d'Assise di Roma che fra il '94 ed il '96, assolsero sia la P2 dalle accuse di "complotto ai danni dello Stato" che lo stesso Gelli per le innumerevoli accuse attribuitegli. Il tutto documenti alla mano, come peraltro - un vent'ennio fa - fece anche lo scrittore e regista Pier Carpi con il suo "Il caso Gelli" (1982) ed il romanzo "Il Venerabile" (1993). Scritti che gli costarono l'esilio da parte del panorama culturale dell'epoca....sic ! Rimane solo una domanda di fondo, che emerge dalla conclusione stessa del saggio di Mola: perché i mass-media tacquero in merito a queste sentenze al punto che ancora oggi Gelli e la P2 sono bollati con marchio d'infamia ? Quella di "Gelli e la P2 fra cronaca e storia" è senza dubbio una lettura appassionante, dunque, che permette al lettore di addentrarsi in una vicenda mai del tutto trattata per com'è stata nei fatti, con un'analisi dell'Italia degli ultimi trent'anni. Un'Italia ancora incapace di scrollarsi di dosso il suo pesante passato.
 Luca Bagatin
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