15 dicembre 2013
"Il sadismo dell'orrore" by Ladymarica
Questo racconto horror di Ladymarica ci è piaciuto davvero molto. Sia per l'idea, sia per lo stile. Nella sua crudezza nasconde, peraltro e tutto sommato, un fondo di umanità, con tratti d'ironia. E' per questo che desideriamo ripubblicarlo qui ed offrirlo "in pasto" (è proprio il caso di dirlo !) ai nostri lettori.
L.B.
Il sadismo dell'orrore by Ladymarica

La
gola umana quanto poteva essere profonda? Sicuro scivolosa. Mi chiedevo
se a un certo punto ci si scontrasse con tutte le parole che sentivo
loro dire, sempre, continuamente, come se non ne potessero fare a meno.
Avevo sentito Nicolas vantarsi con gli amichetti di quanto gli piacesse
la mia sofferenza. Bé, non proprio la mia. Per lui non era liberarsi di
quegli esserini neri che avevano fatto nido nella sua casa, per lui era
di più. Era sentirsi Dio, giocare da Dio, decidere se gli andava la vita
o la morte a merenda. Poi c'era la paura, quella se la beveva insieme
al pasto.
Ogni scarafaggio della mia famiglia caduto, per errore, distrazione o
voglia di avventura, vicino ai suoi piedi viveva quella tragica
esperienza. Quasi tutti alla fine morivano schiacciati, certo, qualcuno
di morte veloce, qualcuno prima terrorizzato a dovere. Alcuni si
salvavano pure. Era il massimo godimento di Nicolas, sono arrivata a
pensare, il salvarne uno ogni tanto, il sapere di poter decidere non
solo come ucciderli, ma persino di salvargli la vita: lui, il
miracoloso, il misericordioso.
Quando uno dei miei cadeva nelle sue ore di noia, Nicolas si divertiva a
inseguirli; o con l'ombra dei piedi o con bastoncini acuminati o con
qualsiasi cosa avesse a portata di mano.
Ogni volta, per uno scarafaggio, vedere quel piede che si abbassava
improvvisamente era “stare per morire”. E ogni volta era sopravvivere
unicamente per rivivere quella perifrastica attiva un secondo dopo.
Tanti secondi tutti appiccicati che parevano voler dimenticare la logica
del tempo.
A me non dispiaceva, non sempre. Ma perché ero più vecchia dei miei
compagni e sapevo come scappare. Mi piaceva sentirmi completamente senza
speranza ogni tanto, ma poi riprendermela.
Mi faceva arrabbiare, mi disgustava, mi dava dolore essere umiliata da
quel moccioso di 6, forse 7 anni, dovergli scappare, divertirlo con la
mia angoscia, ma proprio per questo non potevo farne a meno.
Ci fu un momento in cui divenne troppo. Un giorno Nicolas catturò uno di
noi, uno dei piccoli e, invece del classico gioco vita-morte, lo
rinchiuse in un barattolo. Lo torturava regolarmente, per farlo muovere,
per farsi divertire. Lo affamava, lo umiliava mostrandolo ai suoi
amici. Di notte noi della tribù sentivamo piangere il piccolo
scarafaggio. Immaginavamo la sua paura, la sua solitudine. Grida
strazianti provenivano dal barattolo, grida irriconoscibili e non
riconosciute dalle orecchie degli umani. Passarono due giorni, sentivo
le grida indebolirsi sempre di più, il pianto diventare un lamento
soffocato.
Lo affogò. Pochi giorni dopo, una domenica mattina. Assistemmo
all'esecuzione da dietro una tenda. Nicolas iniziò con poche gocce. Il
piccolo cercava di fuggire, si arrampicava ma subito le pareti lisce lo
riportavano alla tortura. Non ho mai sentito un pianto così disperato e
una risata così divertita nello stesso momento. Poi le gocce divennero
cascate, finché il barattolo non fu quasi pieno.
Nicolas avvitò il tappo mettendo fine sia alla sua risata che al pianto dello scarafaggio.
Una sensazione di fastidio, di dolore profondo e sconfinato, di rabbia,
di impotenza, di violenza mi arrivò dritta alla testa. Dovevo fargliela
pagare, dovevamo.
Studiai un piano che avesse come unico scopo quello di far provare al
ragazzino la stessa enorme paura, lo stesso enorme senso di umiliazione e
di dolore che lui aveva fatto provare a noi.
Il piano era semplice, anche se suicida. Partimmo in massa, a tarda
notte, verso la stanza da letto che Nicolas condivideva con la sorellina
più piccola, una bionda creaturina, ingenua e perfettamente
sacrificale, scivolando piano sul pavimento gelido, compatti e senza
svegliare nemmeno i mobili del corridoio. Eravamo mille, forse di più,
contavo la paura nelle file dei soldati. Arrivati in camera ci
arrampicammo sul letto, piano, silenziosi. Insetti ovunque: tra le
lenzuola, tra i capelli dell'ignara bambina, macchine nere che agli
uomini sanno di conati di vomito. Vedevo la paura come se non fosse più
solo un sentimento ma un'immagine.
Eravamo ben attenti a non sfiorarle la pelle per non allarmarla con il
solletico delle nostre esili zampe. Poi un cenno, lieve mio fruscio.
Mille, o forse più, scarafaggi si gettano sulla bocca addormentata della
bambina. Unica massa nera in caduta libera. Scivolano tra le sue
labbra, nella gola profonda. Vedo gli occhi di lei spalancarsi per il
terrore, prova a gridare. Il suono si ferma sulla barriera degli
insetti, ostruito, chiuso, inascoltabile. La bambina si agita, consuma
l'ossigeno che le è rimasto con più fretta, il terrore la fa piangere.
Nicolas si sveglia, accende una luce e guarda l'orrore. Grida quasi
immediatamente “mamma”. Prima che i genitori riescano a capacitarsi
dell'urlo, la bambina soffoca, tra gli insetti che ha ingurgitato e
quelli che schiaccia coi denti. Sente tutto lo schifo, fino in fondo.
Soffoca nel suo stesso provare schifo.
Nicolas è impietrito, in lacrime. I genitori si muovono convulsi. Dicono
cose, non li sento. Sento solo Nicolas che ora, finalmente, riesce ad
ascoltare il pianto disperato del piccolo scarafaggio che ha torturato
per giorni, ora improvvisamente gli pare di non poterlo sopportare e di
volerlo risentire.
Io, persa in tutto quell'orrore, in quella disperazione, in quell'immondo, finalmente riesco a godere.
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